La preghiera del padre nostro termina con una richiesta di liberazione. Forse è la richiesta per eccellenza che ciascuno di noi ha rivolto a qualcuno nella propria vita, quella di essere liberati da un peso, da catene, da sofferenze, da mali.
Il dolore affligge tutti; non c’è uomo o donna su questa terra, che non abbia vissuto o che non stia vivendo un dolore, un dramma, un evento che segna in maniera indelebile lo spirito e la carne, un fallimento o una serie di errori.
La parola “male” contiene questo e molto altro, ed è tutto ciò che noi fatichiamo a capire, ad accettare, a sostenere, ma troppo spesso di fronte ad esso facciamo finta di niente, ci voltiamo dall’altra parte e continuiamo a vivere nell’illusione che prima o poi passerà, in qualche modo, non si sa bene come, ma passerà.
Anche io mi sono ritrovato spesso inchiodato negli errori del passato, ho sentito la lama del senso di colpa trafiggermi il fianco, impedendo ogni minimo movimento.
Ho sentito vibrare la sfiducia e la sensazione che fossi al di sotto degli altri, denigrandomi e limitando così le mie potenzialità.
Ho avuto paura, quella dannata paura che paralizza e che conduce all’isolamento, spaventato dalla mia stessa ombra e da chiunque si accostasse a me.
Dura da ammettere ma solo riconoscendo ciò che uccide si inizia a liberarsene e a renderlo meno forte.
Cosa ha salvato la mia vita dal male? L’amore e la fede, ecco la risposta.
Se commetti un errore ne pagherai le conseguenze e non puoi pensare di farla franca, ma ricordati che tu non sei quell’errore. Lo diventi solo se non te liberi, se non allontani il più possibile da te le condizioni che possono indurti a cadere. Puoi fallire nella vita, ma non sei il fallimento.
Chi è che non sbaglia e chi non sperimenta il fallimento e la frustrazione nella sua vita? Eppure c’è sempre un motivo per ricominciare, ricostruire, rinascere.
Gli sbagli commessi spesso conducono, o possono farlo, nella landa del senso di colpa, dalla quale molto difficilmente riusciamo ad uscire.
Paradossalmente siamo i primi giudici di noi stessi, tanto da pretendere espiazioni infinite, che superano la capacità umana di sostenere tali pesi. Il senso di colpa svuota lo spirito e le membra di ogni vitalità, blocca le energie depositate in noi, sotterra ogni possibilità di vita autentica.
Il senso di colpa genera sfiducia e la sfiducia conduce ad una percezione bassa di se stessi, da non confondere con l’umiltà, la quale permette piuttosto alla persona di vedersi per quello che è, riconoscere i suoi limiti ma anche le sue capacità. Lo sfiduciato invece denigra completamente se stesso, ponendosi su di un livello tutt’altro che innocuo.
Dal guardare male se stessi infatti si finisce per guardare male gli altri. L’invidia nasce da un cuore incapace di sorridere dei suoi doni e di se stesso, vuole la distruzione dell’altro e vive di morte senza averne alcuna gratificazione.
E poi la paura che, come canta Lucio Battisti, inquina e uccide i sentimenti, paralizzando il cuore e isolando la persona nelle proprie errate percezioni, rendendola schiva e innaturale. La paura adamitica dell’altro e del Bello dell’esistenza, la paura di essere se stessi e di essere vulnerabili, nudi, verso chi si ama, o chi si dovrebbe amare.
Liberati da tutto questo, liberati dal male, dal tuo male, e non da quello generico di un mea culpa improvvisato e rituale, utile solo ad appiattire la coscienza.
Accetta però che ti dica una cosa: a volte non puoi farcela da solo! Lo so che oggi va di moda ogni tipo di self: le foto sono selfie, la benzina è self service, la spesa possiamo farla in totale autonomia passando attraverso le “casse veloci”, per non parlare del casello autostradale e di molte altre cose che oggi possiamo fare da soli, felici di sbrigarci, dimezzare i tempi e accorciare la distanza che ci separa dal successivo, improrogabile impegno.
Tutto vero, bello tutto, ma a volte non puoi farcela da solo, sopratutto quando si tratta di faccende così delicate come quelle dello spirito, per le quali, scriveva Nietzsche, bisogna essere onesti fino alla durezza, e purtroppo questa onestà noi non l’abbiamo, o semplicemente, senza darci troppo addosso, non abbiamo una visione così profonda della nostra vita.
Per questo a volte abbiamo bisogno di occhi che vedano meglio dei nostri. Io ho avuto bisogno di occhi che sapessero vedere meglio dei miei, che sapessero guidarmi ed illuminarmi in certi momenti del cammino. Quegli occhi sono quelli di mia moglie, così come i miei lo sono per lei, talvolta.
Non è una limitazione pensare che qualcuno possa esserti luce e guida, e che magari possa saperne più di te o accorgersi di cose che tu non vedi dentro di te e intorno a te. Se ti ostini invece nella convinzione che sei un uomo o una donna che non deve chiedere mai, che sei uno e trino, che sei onnipotente, vabbè allora, come si dice, stai bene così.
Da solo porterai dei pesi senza sentire tregua e pace. Ti sforzerai ogni giorno ed investirai energie essenziali per piangerti addosso o per sfinirti nelle smanie e nei pensieri oscuri, ma non sarai mai libero dal tuo male.
Nel film Mission c’è una scena che amo immortalare come sintesi della liberazione interiore di una persona: il cacciatore di schiavi spagnolo, Rodrigo Mendoza dopo aver ucciso per gelosia suo fratello Felipe e travolto dal rimorso, decide di lasciarsi morire in cella. Padre Gabriel, venuto a sapere dell’accaduto, lo convince a trasformare il suo rifiuto della vita in una penitenza con la quale possa espiare le proprie colpe facendolo salire sulle cascate..
La penitenza, interminabile e durissima, si conclude quando un’indigeno recide il fardello di Mendoza, il quale non può che sentirsi liberato dal suo male con un pianto che non ha bisogno di commenti: un pianto di liberazione.
Bello sapere che l’aiuto ti potrà arrivare da chi non immagini, magari proprio dalle persone che hai scartato o da condizioni che hai ripetutamente allontanato da te. Bello sapere che il male non ha l’ultima parola sulla tua vita e che il suo protrarsi dovrà essere considerato un abuso come scriveva don Tonino Bello e proprio con le sue parole ti auguro la vita e la felicità.
C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo. “Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra”. Forse è la frase più scura di tutta la Bibbia. Per me è una delle più luminose. Proprio per quelle riduzioni di orario che stringono, come due paletti invalicabili, il tempo in cui è concesso al buio di infierire sulla terra.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.
Coraggio, fratello che soffri. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.