Il mio primo rettore aveva un modo assai curioso di mettere in difficoltà i seminaristi: si avvicinava con fare sornione mentre con la mano faceva scivolare gli occhiali sulla punta del naso e iniziava a fissare la vittima prescelta. L’altra mano era generalmente in tasca oppure sul fianco a mo’ di brocca. La sua statura minuta non lo rendeva certo meno minaccioso.
Tutti presto o tardi sperimentavano le sue sfuriate ma soprattutto temevano le sue sferzate. Così dopo un primo momento, interminabile per il povero seminarista alle corde, di sguardi duellanti stile Clint Eastwood e Lee Van Cleef, eccolo esordire con la solita modalità: un sospiro, il nome del seminarista pronunciato come a volerlo richiamare dal sepolcro delle sue certezze (che andavano minate) ed infine una telegrafica e maledettamente mirata battuta, seguita da un altro sospiro, dallo sguardo ancora fisso e dal piede che batteva ripetutamente sul pavimento.
Fu così che mi colpì un giorno e Dio solo sa se me lo ricordo. Scendevo frettoloso per le scale consumate dal passaggio di chissà quanti studenti nel corso degli anni, e mi appressavo verso la biblioteca. Me lo ritrovo davanti e, naturalmente, lo saluto. Ma ecco il cobra che mi fissa, mano in tasca, occhiale in basso e piede tamburellante: “Ehh Federico!” Silenzio. “L’acqua cheta! Ehh!”. Silenzio. Abbozzo un sorriso perché credo di aver capito e lui sa che io so ma devo sapere che anche lui sa, e pure bene, chi sono e che quindi devo prendere sul serio quello che ha appena accennato.
Lo sguardo del rettore è ancora insistente e, nonostante non ci sia una tensione eccessiva, aspetto con ansia un segno che mi lasci intuire la fine di quel fugace colloquio. Mi sembravano i momenti migliori quelli: improvvisi e affatto preparati, nessun paracadute, nessuna difesa, nessuna mascherata. “Ehh, vai vai!”. E me ne vado si! Ma quella telegrafica rivelazione mi resta appiccicata in testa.
Memorabile fu la frecciata che scagliò ad un altro seminarista: entrando nella sua stanza si mise a guardare le montagne che si stagliavano dinanzi al collegio mentre il sole che deponeva le armi su quelle scure dorsali. Esordì infine: “Eh L.!” Silenzio. “Questi tramonti! Ehh!”. Il povero ragazzo rimase assorto ed imbarazzato da quella frase che non sapeva dove volesse portarlo. Anche lui rispose con un sorriso e con una richiesta di spiegazioni ma, come da prassi, venne lasciato con un “Ehh!” e con un tarlo che iniziò subito il suo lavoro nel più profondo dei pensieri.
Era così per tutti e così a me piaceva dopotutto, perché era capace di farci capire, o almeno provava a farlo, che non tutto è come sembra. A quelle parole difficili da digerire si doveva un’obbedienza ragionata, non cieca, assoluta o priva di discernimento. Obbedienza in fondo si collega al latino ob audire che significa ascoltare chi è dinanzi, prendere sul serio ciò che viene comunicato dall’altro, vagliarlo e prendere ciò che è buono e utile per la tua vita.
E ciò che ascolti e ti viene incontro non è sempre infiocchettato da un linguaggio vellutato e mansueto. Ma nella vita si deve accettare tutto. Credo che la parola rivolta senza i filtri delle buone maniere sia il più delle volte attendibile perché non interessata ad un contraccambio di qualsiasi genere, ma giunge per la verità e la verità è sempre un terremoto nella vita di una persona.
Certo ho ricevuto anche insegnamenti attraverso modi gentili, e non per questo meno persuasivi, atteggiamenti che sono anche più consoni alla mia sensibilità, ma mi ripeto, e ne sono fermamente convinto, che in alcuni momenti di stagnazione, di paralisi, di blocchi e di adagiamento nelle placide acque della fissità, c’è bisogno di una chiamata dirompente e irrispettosa dei tuoi dolci lidi, dei tuoi paradisi di plastica e delle tue melense giornate fatte di aperitivi e serie tv.
Ma sì, perché in fondo storcere il naso? Forse perché nascondiamo qualcosa che non vogliamo riconoscere e che magari condanniamo duramente negli altri?
L’acqua cheta rompe i ponti. Significa che le persone tranquille e quiete sono quelle che maggiormente vanno temute. È un avvertimento, e non è poi del tutto sbagliato, che mi ha fatto sempre cercare la verità di me, come scriveva Thoreau: “Datemi la verità, invece che amore, danaro o fama. Sedetti a una tavola imbandita di cibo ricco, vino abbondante e servi ossequiosi, ma alla quale mancavano la sincerità e la verità; partii affamato da quel desco inospitale. L’ospitalità era fredda come i gelati.” La propria verità poi tutto il resto.
La lezione vale per tutti: non è detto che siamo ciò che sembriamo o che ci affanniamo a manifestare agli altri; per questo è vitale riconoscere gli appelli che la vita fa cozzare improvvisamente su di noi e non mostrare nei confronti di essi quella eccessiva rigidità che ci svincola dai pericoli e dai mari in tempesta.
Le acque placide sono belle da guardare così come è piacevole fotografare il sole che tinteggia l’orizzonte e sognare dilettandosi delle meraviglie di questo nostro creato, ma solo chi prende il largo può conoscere il mare con le sue ricchezze e le sue asperità. Il poeta Fernando Pessoa scrisse che Dio diede al mare il pericolo e l’abisso, ma che sopra di esso fece risplendere il cielo, che tutto vale la pena se l’anima non è piccola e che si deve andare oltre il dolore,
Avventurarsi nel cuore della nostra storia non richiede particolari abilità, richiede però un’anima grande (Mahatma) capace di accogliere e pesare ogni realtà vissuta, senza aver paura di scoprirsi diversi e forse anche peggiori di come ci si era illusi di essere. Ma soprattutto è necessario sapere di non bastare a se stessi e che siamo bisognosi di trovare quella cosa destinata a noi, quella perla nascosta da qualche parte lungo il cammino della vita, quella vita vera che cerca di emergere tra gemiti inesprimibili del nostro spirito.
Dimentica dunque ciò a cui sei rimasto legato per tutti questi anni, sciogli il laccio del superfluo, e mettiti in viaggio.Un deserto senza strade
Non credo vi sia consolazione nel lasciare le cose così come sono. E non vi è nemmeno saggezza. Ecco invece cosa c’è: codardia ed insicurezza di chi vuole mantenere i suoi piccoli privilegi e che, per amore della pace, non affronta mai i problemi della sua vita.
Le acque troppo quiete non sempre significano che tutto va bene: è sufficiente ad esempio che una tempesta improvvisa si abbatta su di esse per portare a riva tutto il marciume, le nefandezze, i rottami ed ogni specie di scarto depositato nel fondo e dimenticato come se non fosse mai esistito.
Ecco cosa vorrei dirti: se non sarai tu a smuovere quel fondale che è la tua storia fatta di una molteplicità di eventi, ricordi, volti, parole, sogni, beh non ti preoccupare, arriverà la tempesta perfetta e allora avrai l’occasione, (perché di questo si tratta), di andare oltre e di perderti forse, sì, barcollare, temere e gemere, poi forse rimpiangere il passato e il porto che hai lasciato, ma alla fine troverai qualcosa di unico alla fine della strada, in qualche incrocio perduto e sconosciuto, da dove altre e numerose vie si snodano inaspettate davanti a te.
È un piacere leggerti! Grazie!